RAI, occorre un cambiamento radicale
Diciamoci la verità, per noi italiani il problema spesso non è il merito ma il metodo delle scelte. Il Presidente Mario Monti ha fatto un’affermazione lucidissima nel suo discorso di fine anno, e non è un caso che in pochi (o addirittura nessuno) l’abbiano evidenziata.
L’Italia paga il costo delle decisioni non prese. Il problema di metodo, c’è da temere, non appartiene solo a una o all’altra parte politica, ma piuttosto è un nostro retaggio culturale. Agli storici e ai sociologi la ricerca di quali siano le ragioni, ma la constatazione richiede una risposta se vogliamo uscire dalla crisi.
Prendiamo come esempio un caso certamente rilevante. Da qualche tempo diverse voci si sono levate a segnalare l’inadeguatezza della nostra televisione pubblica. C’è chi ha sottolineato il suo deficit nei confronti degli obiettivi di un servizio pubblico e chi, come Grillo, ha indicato la vendita delle reti come l’obiettivo da perseguire. E tutto ciò mentre la RAI, quasi ossessivamente, ricorda agli utenti che, qualunque cosa uno intenda fare del proprio televisore – da acquario a soprammobile – il canone va pagato perché è una tassa.
Nulla da obiettare e anzi lo spot è molto accattivante. Ma, detto ciò, che senso ha una televisione pubblica di questo tipo? Una televisione che in nulla differisce dalle televisioni commerciali e che interpreta il pluralismo come la spartizione proporzionale del tempo tra i politici di turno per fare loro dire, in dichiarazioni di pochi secondi, concetti assolutamente banali e astratti. Una televisione che, per garantire il pluralismo, ci impone una società pubblica con nomine affidate a scelte governative – con tutto ciò che ne deriva in termini di clientelismo – e con una commissione parlamentare sapientemente lottizzata.
Forse un tempo ci saremmo potuti permettere un tale onere. Ora non più. La vendita della RAI nel suo complesso, con una gara aperta a chi non è già sul mercato, garantirebbe l’apertura dello stesso. Consentirebbe un introito immediato allo Stato e risparmi al bilancio pubblico per il futuro, esentandolo dal dare sussidi, e alleggerendo i cittadini del costo di un canone che è, appunto, una tassa in più. Naturalmente andrebbe aperto alla concorrenza anche il mercato della pubblicità, auspicabilmente sotto la guida dell’Autorità della concorrenza, di quella delle comunicazioni e, ancor più, della Commissione europea.
Ma ecco la questione di metodo. Grillo dice privatizziamo i canali della RAI con l’eccezione di uno solo, quello che – sembra di capire – dovrebbe garantire il servizio pubblico. La soluzione poteva andare bene decenni fa. Ora non più. Anche quel canale sarebbe lottizzato dai partiti, suddividerebbe, secondo il manuale Cencelli, gli spazi, manterrebbe un’impalcatura politica che già esiste e lascerebbe invariato il canone a carico di coloro che possiedono il televisore, discriminando – come sempre avviene in Italia – coloro che pagano spontaneamente da quelli che non pagano.
Qual è il senso di tutto ciò? Ormai le scelte devono esse più radicali e incisive. La sensazione è la stessa che si prova nel sentire i proclami sulla riduzione delle auto blu, che “d’ora in poi saranno usate solo per ragioni di servizio”. Dimenticando che è già così e che se si vuole veramente cambiare, ciò che serve non è una limatura ma l’eliminazione delle auto blu.
Si è cercato, in anni anche recenti, di avviare modifiche della governance della RAI, senza successo. Eppure erano iniziative partite con le migliori intenzioni. Dobbiamo insistere nei fallimenti? Si vendano tutti i canali della RAI. Le risorse ricavate vadano a beneficio della riduzione del debito pubblico o a sgravio delle imposte su lavoratori e imprese, secondo ciò che risulterà più conveniente per la crescita. Si sopprimano tutte le sovrastrutture politiche, che allo stato non assicurano nulla.
Si dirà che la RAI è la più grande azienda culturale del Paese? Ci si doveva pensare prima. Ora non ci sono le risorse per mantenere questa struttura iperpoliticizzata e costosa, che si è adeguata al basso livello culturale delle televisioni commerciali e che non è in grado di assicurare la diffusione della cultura e della stessa lingua italiana, non dico nel mondo, ma neppure in Italia, tanto è diffuso il regionalismo di accenti e la sgrammaticatura delle espressioni.
Ciò che va salvaguardato è il patrimonio creato negli anni con le risorse pubbliche, in particolare le teche RAI. Queste devono restare in mano pubblica per garantire libertà e parità di accesso, come una essential facility, previo pagamento di un corrispettivo per chi vi accede. Così come vanno imposti oneri di servizio pubblico in termini di ore di programmazione destinate a informazione e programmi culturali (per favore non talk show!) a chi acquisirà in base a gara il diritto di utilizzare le frequenze ora gestite dalla RAI.
Coraggio, proviamoci. Infondo non abbiano molto da perdere, ma certo potenzialità da sfruttare.
Un estratto del mio editoriale uscito il 18 marzo su Corriere Economia: primaonline.it