L’Unione europea spesso responsabile anche quando gli Stati membri non le conferiscono i poteri necessari
Di seguito si riporta in anteprima un primo estratto di un contributo del Prof. Avv. Carlo Malinconico per un volume di prossima pubblicazione dal titolo “Il Governo populista: una critica ragionata”
L’Unione europea appare sempre più compressa tra spinte contraddittorie. Da un lato, gli Stati membri e le pubbliche opinioni le addebitano la responsabilità per i deludenti risultati in diversi settori della vita economica e sociale; dall’altro, gli stessi Stati membri e gran parte dell’opinione pubblica negano all’Unione i necessari poteri per raggiungere quegli obiettivi ed anzi rivendicano, sempre più frequentemente, prerogative nazionali e sovraniste, sintetizzate nell’affermazione che le collettività nazionali hanno la precedenza, sull’onda dello slogan America first, che imperversa sull’altra sponda dell’Atlantico.
Benché tali atteggiamenti nazionali derivino spesso dall’esigenza di trovare un capro espiatorio, non v’è dubbio che, a lungo andare, essi creino sfiducia nell’Istituzione europea, anche al di là di manchevolezze ed errori, che pure sussistono, ma che andrebbero affrontati non depotenziando, ma anzi rafforzando l’Unione europea al suo interno e verso l’esterno.
Per un fondamentale principio del diritto dell’Unione Europea, gli atti di quest’ultima devono avere fondamento nella specifica previsione dei trattati istitutivi (Trattato dell’Unione europea e Trattato sul funzionamento dell’Unione europea).
Detto in termini più tecnici, l’Unione Europea si presenta non come un’entità con fini generali, di cui sono invece dotati gli Stati membri, bensì come un’organizzazione fornita di competenze specifiche, attribuitele dagli stessi Stati membri. Questi ultimi, naturalmente, gelosi delle proprie competenze, procedono a quella che è una vera e propria “cessione di sovranità” con grande riluttanza e con una buona dose di sospetto reciproco. D’altra parte, proprio il “principio di attribuzione” esplicita di poteri all’Unione è condizione del trasferimento delle competenze stesse: nessuno Stato membro si priverebbe di competenze non specificamente descritte nei Trattati istitutivi.
Neppure supplisce a questa specificità di competenze il principio noto nel diritto internazionale dei “poteri impliciti”. Tant’è che nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (articolo 352) si prevede che possano essere attribuite all’Unione europea competenze non già previste dai trattati, ma tale possibilità è accompagnata da vincoli procedurali, che coinvolgono tutti i principali organi dell’Unione. Dispone, infatti, quella norma: “Se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate”. Occorre, dunque, la delibera del Consiglio dell’Unione europea, adottata all’unanimità e, quindi, col consenso di tutti gli Stati membri; è necessaria la proposta della Commissione; è richiesta l’approvazione del Parlamento europeo.
Non solo; quella disposizione non può essere utilizzata “per il conseguimento di obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune”, che notoriamente costituiscono le prerogative di cui gli Stati membri sono più gelosi.
D’altra parte, anche quando i trattati prevedono effettivamente la competenza dell’Unione europea, si distingue tra la competenza esclusiva e quella concorrente con gli Stati membri. Nel primo caso, l’Unione europea può regolare interamente la materia con “leggi europee” (i regolamenti), che disciplinano nel dettaglio la materia, con esclusione della normazione dei singoli Stati membri. Nel secondo caso, invece, l’Unione europea interviene con “leggi quadro” (le direttive), che perseguono l’obiettivo dell’armonizzazione tra i vari diritti nazionali, ma appunto perciò non escludono le leggi interne.
Altro limite all’intervento dell’Unione europea, anche nella forma più blanda della legge quadro, deriva dal principio di sussidiarietà; principio in forza del quale l’Unione europea interviene solo nella misura in cui è strettamente necessario per il perseguimento delle finalità affidatele e quando sussiste la rilevanza transnazionale della materia da regolare.
Molto spesso, quindi, si assiste ad un fenomeno paradossale: gli Stati membri e le pubbliche opinioni addebitano all’Unione europea responsabilità di effetti negativi per le loro collettività, senza però attribuire all’Unione europea le competenze necessarie per risolvere i problemi. E spesso tale artificio è utilizzato come strumento di “distrazione” della pubblica opinione dalle effettive responsabilità dei governi nazionali.
Serve davvero un livello di governo sovranazionale?
L’Unione Europea costituisce, in buona sostanza, un unicum nelle relazioni internazionali tra Stati. Non è una federazione di Stati, con una ripartizione tra Stato federale e Stati confederati, tendenzialmente rivolta a riservare allo Stato federale le funzioni fondamentali. Ma non è neppure un semplice trattato internazionale tra Stati sovrani, che richiede l’adeguamento degli ordinamenti nazionali attraverso atti di ratifica dei singoli Stati secondo le loro specifiche disposizioni costituzionali.
È, invece, un’entità che mantiene, da un lato, la sovranità dei singoli Stati ma, dall’altro, prevede limitate cessioni di sovranità per il perseguimento di finalità comuni: in primo luogo, il miglioramento delle condizioni di vita ed economiche dei cittadini europei. Il merito di tale “invenzione”, così originale nel diritto internazionale, sta nell’aver realizzato un minimo di coesione e soprattutto la creazione di un mercato unico europeo, che è il più grande mercato mondiale, moltiplicando le occasioni di impresa e di lavoro. Naturalmente, non tutti gli Stati membri sono riusciti ad utilizzare allo stesso modo le opportunità create dalla Comunità economica europea, prima, e dall’Unione Europea, poi. Ma non c’è dubbio che l’obiettivo della armonizzazione delle disposizioni consente la più dinamica mobilità di cittadini e imprese e la possibilità di accedere a un mercato di dimensioni ben superiori rispetto a quelle nazionali.
Del resto, era difficile superare le reciproche diffidenze degli Stati europei, fino a pochi anni prima della costituzione della comunità economica europea divisi da guerre terribili. Stati, in ogni caso, contraddistinti da autonomia e indipendenza, gelosamente custodite come un retaggio di epoche storiche assai risalenti. Il merito, indiscusso, di tale scelta organizzativa è stato quello di assicurare un periodo, mai prima d’allora conosciuto, di pace e di prosperità.
Certo i problemi nel mondo contemporaneo sono molto cambiati.Ma proprio i problemi che assillano le opinioni pubbliche europee, dall’immigrazione alle guerre doganali tra colossi dell’economia mondiale, alla massa critica per competere sui mercati delle materie prime, al contrasto delle tempeste valutarie e finanziarie, che ciclicamente percorrono le economie mondiali, al contrasto di fenomeni malavitosi, che non conoscono confini, richiedono – sempre di più – l’esigenza di un livello di governo di questi problemi più ampio di quello che è possibile realizzare dai singoli Stati. Dunque, paradossalmente, proprio chi lamenta, e giustamente, l’assenza di soluzioni a livello europeo dovrebbe lottare perché l’Europa abbia più strumenti giuridici e finanziari per affrontare tali moderne complessità.
Il ritorno dal sistema comunitario a quello intergovernativo: involuzione dannosa per gli Stati più deboli.
L’indebolimento dell’Europa, intesa come Unione europea, è reso palese dalla costituzione di “direttori”, in particolare quello franco-tedesco, che per lungo tempo – e ancora oggi – “ruba la scena” agli organi dell’Unione europea. Frequente è la considerazione che, se sono ben noti i presidenti della Repubblica francese e i cancellieri della Repubblica federale di Germania, molto meno noti sono i ruoli e persino i volti di coloro che ricoprono cariche istituzionali nell’Unione europea.
A questa considerazione altra se ne deve aggiungere: gli Stati membri del Nord Europa hanno sempre dimostrato maggiore attenzione verso le cariche europee e verso l’alta burocrazia degli uffici della Commissione. Quando si dice che le direttive sono “scritte” in francese o inglese o tedesco, si fa riferimento alla netta prevalenza che alcuni Stati membri hanno, con riguardo a determinate materie, nel dettare le regole comuni.
L’Italia è tradizionalmente debole in questo scenario. E si tratta di una responsabilità non da poco. È assolutamente inutile lamentare la parzialità di certe determinazioni europee, senza curarsi degli organi che assumono quelle determinazioni. Spesso, anzi, i funzionari di nazionalità italiana si sentono particolarmente “abbandonati” dal loro Stato nazionale. In tale contesto, l’Italia rischia di subire le scelte degli altri paesi.
La sensazione, dunque, che in Europa comandino i paesi forti, non è certamente priva di fondamento. Eppure, solo dagli organi dell’Unione europea può venire un bilanciamento dello strapotere dei paesi dell’Europa settentrionale nei confronti dei paesi dell’Europa meridionale. La forza dei primi può essere opportunamente moderata e convogliata nella sintesi necessaria a livello comunitario, non immaginando di indebolire l’Unione europea. Gli Stati più deboli, in altre parole, hanno tutto da guadagnare da un’Unione europea più forte e con regole più chiare di “democrazia” interna.
Le critiche italiane alla “imposizione” di vincoli alle scelte di politica economica. Austerity vs. flessibilità.
Spesso, e soprattutto recentemente, l’Unione europea è stata descritta e vista come un opprimente vincolo alla politica nazionale italiana. Si è, in proposito, osservato che l’imposizione di vincoli di austerity comporta per il nostro Paese un ostacolo alle scelte sovrane dello Stato, volte a garantire il benessere dei suoi cittadini. E che, tanto più si avverte questo vincolo opprimente, quanto più si è in fase di contrazione della domanda interna ed estera e quando manca la crescita economica, testimoniata per l’Italia dalle previsioni dell’andamento del Pil, che fanno ormai parlare, per il 2019, di una “recessione tecnica”, cioè di una recessione che non viene ancora definita tale tout court, per la sola ragione che si tratterebbe di un momentaneo arresto della crescita, cui dovrebbe seguire la ripresa della produzione. Si osserva, ancora, che per uscire dalla stagnazione economica, collegata anche a fattori internazionali, occorre una politica anticiclica, tutto all’opposto della austerity, e dunque una politica espansiva della spesa pubblica. Si aggiunge che per altri Stati membri, ad esempio la Francia, l’attenzione dell’Unione europea si fa più benevola, nonostante che uno dei parametri di valutazione delle politiche pubbliche di bilancio, in particolare il rapporto deficit/Pil, ecceda il limite del 3% fissato dalle stesse regole europee. Insinuando, con ciò, che ci siano in Europa figli e figliastri e che l’applicazione delle stesse regole europee non sia oggettiva, ma piuttosto asservita agli interessi di altri Stati se non di potentati economici.
È necessaria la verifica di queste affermazioni sulla base delle disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che si occupa della “politica economica e monetaria”.
L’Unione europea e i bilanci pubblici degli Stati membri.
Con tali norme, gli Stati membri considerano le loro politiche economiche una “questione di interesse comune e le coordinano nell’ambito del Consiglio”. In particolare, è previsto che il Consiglio possa adottare una raccomandazione con gli indirizzi di massima per il coordinamento di tali politiche e per la “convergenza duratura dei risultati economici degli Stati membri”. Alla base di tali disposizioni c’è la considerazione che, nell’ambito dell’Unione europea, gli Stati non dovrebbero adottare politiche economiche in modo scoordinato, impedendo, gli uni, di raggiungere gli obiettivi agli altri. In sostanza, gli sforzi individuali non dovrebbero ostacolarsi a vicenda, con spreco di risorse e frustrazione degli obiettivi.
Si prevede anche che, nella fissazione di detti obiettivi comuni, possono essere decise, in uno spirito di solidarietà tra gli Stati membri, “le misure adeguate alla situazione economica, in particolare quando sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti, in particolare nel settore dell’energia”; così com’è previsto che il Consiglio, su proposta della Commissione, possa concedere “assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato che si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”.
Dunque, il coordinamento delle politiche economiche nazionali ha un obiettivo di supporto all’iniziativa dei singoli Stati. Naturalmente sta agli Stati membri essere presenti ed efficaci nei tavoli europei in cui si discute tale coordinamento; i giuristi romani avrebbero detto “vigilantibus non dormientibus iura succurrunt”. Come nei rapporti tra individui, anche nei rapporti tra gli Stati, chi sa, meglio e con maggior competenza, sfruttare le occasioni che gli si presentano, amministra meglio i propri interessi e prevale.
In effetti, gli Stati membri hanno sottoscritto il patto di stabilità e crescita (PSC): il patto contiene linee programmatiche volte al coordinamento delle politiche fiscali dei paesi dell’UE e alla salvaguardia di una finanza pubblica solida.
Una particolare attenzione è riservata dal Trattato all’obiettivo di “evitare disavanzi pubblici eccessivi”. La ragione di tale attenzione sta nel fatto che il modo in cui il singolo Stato membro gestisce l’equilibrio dei conti pubblici ha un impatto immediato sulle economie degli altri Stati membri. L’obiettivo del coordinamento delle politiche economiche è la realizzazione, anche per tale via, del mercato unico europeo, obiettivo che richiede uniformità di comportamenti, specie nella predetta gestione economico-finanziaria, che si riflette immediatamente sul rapporto con l’economia e sulle conseguenti condizioni di concorrenza e di parità. Si pensi, ad esempio, che il disavanzo può derivare dal rapporto che il singolo Stato membro ha con le proprie imprese pubbliche e con gli aiuti di Stato, di cui il disavanzo eccessivo può essere una spia. E si pensi, ancora, agli effetti che una politica non accorta in uno Stato membro può determinare negli altri Stati membri, in una sorta di contagio tra economie, strettamente interconnesse.
A maggior ragione, naturalmente, l’attenzione dei trattati europei si concentra su questi aspetti con riferimento agli Stati che adottano la moneta unica europea, l’euro. Nei Paesi europei che hanno adottato l’euro, poi, è tale l’interconnessione degli strumenti finanziari, che gli effetti delle scelte economiche trascendono i confini nazionali
Certo, tale rigore nella contabilità pubblica esclude, se non in misura limitata, la possibilità di sostenere politiche “allegre” di bilancio nazionale e di utilizzare, per fini di politica generale, la “valvola”, apparentemente comoda, della svalutazione. Si tratta, come universalmente riconosciuto, di una “valvola” solo apparentemente a vantaggio del singolo Stato, perché in realtà la svalutazione è comunemente definita come una tassa occulta, che silenziosamente riduce il potere di acquisto di famiglie e di imprese, proprio come fa una tassa occulta e generalizzata. Una tassa che inevitabilmente è sopportata dagli strati più deboli della popolazione, come dolorosamente emerge dai Paesi che subiscono tassi elevati di svalutazione ed in primo luogo dai paesi sudamericani, come attualmente il Venezuela. La comodità di tale rifugio nella svalutazione la pagano tutti, oltre che con il ridotto potere di acquisto che ne deriva, anche con i tassi più elevati di interesse, che la svalutazione porta con sé, indicando la debolezza della moneta e, conseguentemente, con il costo del denaro interno allo Stato stesso.
La svalutazione, dunque, è ritenuta dalle Istituzioni europee “sana” nella misura, in genere non superiore al 2%, in cui essa segnala la presenza di una dinamica della domanda di beni maggiore dell’offerta e, quindi, un ambiente favorevole agli investimenti.
Il rispetto dei parametri europei riduce questa “libertà” agli Stati membri, ma va comunque ricordato che si tratta di obblighi che gli Stati membri hanno assunto con la sottoscrizione del Trattato, in un contesto di mutuo impegno.