Riforme istituzionali. È la volta buona?
Entra nel vivo il dibattito sulle riforme istituzionali. Il Governo ha varato nei giorni scorsi il disegno di legge costituzionale che prevede il cronoprogramma degli adempimenti, dando così il via all’iter legislativo. Certo, il contenuto delle riforme è ancora tutto da scrivere (e il Capo dello Stato ha giustamente messo in guardia i partiti dall’eventualità di far naufragare il percorso della riforma per calcoli opportunistici); ma – bisogna ammetterlo – si tratta di un primo passo nella direzione giusta, che conferma la sussistenza di un’intesa di massima fra le principali forze politiche per mettere mano al sistema istituzionale del Paese. Il dibattito che prosegue ormai da molti mesi principalmente in Parlamento e sugli organi di stampa ha evidenziato l’esistenza di posizioni diverse in merito all’opportunità ed alle effettive priorità della riforma costituzionale. Alcuni sostengono che vi siano problemi contingenti di più immediato impatto sui cittadini, come la riforma del lavoro o dell’imposizione fiscale, che ci affliggono ogni giorno e che richiedono, per ciò solo, interventi urgenti. Altri, invece, mettono l’accento sul fatto che non si possono trapiantare in Italia le forme di governo di altri Paesi, non solo perché diverse sono le tradizioni e le esperienze, ma anche perché da noi le forze politiche sono strutturate in modo tale da non consentire facilmente quel trapianto.
Sono tutte obiezioni serie, ma che possono e debbono essere superate.
Prendiamo, ad esempio, la legge elettorale. Le elezioni rappresentano il cardine della democrazia rappresentativa, il momento in cui i cittadini eleggono i propri rappresentanti in Parlamento e indirizzano l’azione di governo.
Per tale ragione, il sistema elettorale non deve rispondere alle esigenze egoistiche dei partiti, ma alla funzionalità del modello di governo. In sostanza, bisogna uscire dalla logica secondo la quale la legge elettorale deve essere “gradita” ai partiti: sono piuttosto i partiti che, in un’ottica di efficientamento del sistema politico-istituzionale, possono e devono adeguare il proprio assetto alle caratteristiche della legge elettorale e del modello di governo.
È una questione di credibilità delle Istituzioni nei confronti dei cittadini. È da questo, dunque, che bisogna cominciare.
Del resto, anche le riforme della vita quotidiana richiedono una credibilità ed un attaccamento dei cittadini alle Istituzioni che sono a rischio se si procede come nel recente passato. Per non parlare poi del rischio di populismi e di derive demagogiche o di surrogati della democrazia quali i sondaggi via internet. In particolar modo in assenza di una vera e propria strategia digitale e neppure il genoma di un percorso di eDemocracy. A tutto ciò si deve contrapporre il voto popolare come unica forma di reale investitura democratica.
Le recenti elezioni amministrative comunali hanno lanciato il segnale di un aumento dell’astensionismo e comunque della polarizzazione della competizione. Il Governo delle larghe intese è una soluzione coerente con il risultato di sostanziale pareggio registrato tra i principali partiti in occasione delle ultime elezioni politiche. Ma da tutti si avverte che si tratta di una tregua ed in effetti le competizioni elettorali mostrano schieramenti contrapposti. Le larghe intese sono (a torto, ma spesso) rappresentate da noi come un “inciucio”. La scelta del Presidente del Consiglio dei ministri da parte del Presidente della Repubblica è da taluno circondata di sospetti.
Una legge elettorale come quella per l’elezione del sindaco, con sistema maggioritario a doppio turno, è dunque lo strumento più adatto per riavvicinare i cittadini alla politica e per responsabilizzare i politici nei confronti della cittadinanza. Meglio ancora se applicata ad un semipresidenzialismo alla francese che eviterebbe di rivivere l’esperienza recente della nomina del Presidente della Repubblica, risolta fortunatamente con la rielezione di Giorgio Napolitano.
Seguirebbe la necessità di ulteriori modifiche. Andrebbe ridotta la durata del mandato presidenziale, che attualmente è pari a un settennio in funzione “anticiclica” rispetto alla cadenza quinquennale delle Camere ma che nel nuovo sistema non avrebbe più senso. E potrebbe essere opportuna la riduzione della legislatura da cinque a quattro anni, per consentire un più frequente riscontro delle urne e perché gli scioglimenti anticipati sono sempre traumatici.
L’altro problema è la riforma del bicameralismo. Nel sistema attuale l’attività legislativa dello Stato deve essere approvata da entrambe le Camere, con obiettivo (e spesso ingiustificato) allungamento dei tempi. Ma non è solo questo il problema. Occorre dare alle autonomie locali una voce che ora è stata assicurata, essenzialmente in funzione consultiva, solo dalla Conferenza Stato regioni e Stato autonomie locali. Questo ruolo potrebbe essere più efficacemente svolto dal Senato che dovrebbe diventare il Senato delle regioni.
Ciò porterebbe a un ulteriore vantaggio. Il Senato delle regioni dovrebbe esercitare la funzione legislativa di competenza regionale di natura concorrente o ripartita con lo Stato. La voce delle regioni, in queste materie avrebbe la possibilità di esprimersi con omogeneità e a livello centralizzato, invece di assistere ad un colorato individualismo di istituti e termini tra regione e regione. Insomma si tutelerebbero le vere autonomie e si limiterebbero gli ingiustificati particolarismi.
Altro vantaggio sarebbe l’alleggerimento della macchina amministrativa. Il Senato delle regioni potrebbe essere costituito da delegazioni dei consigli regionali e sostituire completamente l’attuale Senato e le Conferenze Stato regioni e Stato autonomie locali.